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Satoshi e gli altri
Una mese, un libro. La recensione di Alberto Mingardi.
Satoshi Nakamoto è l’autore del paper “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, che nel 2008 anticipò alla mailing-list di crittografia Metzdowd i principi alla base della madre di tutte le criptovalute. Che debuttò l’anno successivo, quando grazie a Nakamoto iniziò il processo per cui la nuova valuta sarebbe stata “estratta” dalle miniere virtuali, come avviene tutt’ora e come avverrà fino a quando verranno estratti tutti i 21 milioni di bitcoin che ne costituiscono la disponibilità, scarsa. Ci vuole una bella faccia tosta a biasimare, come fanno alcuni banchieri centrali, Bitcoin perché “privo di sottostante” quando si ha a che fare con uno strumento che prevede l’autodistruzione del torchio per la stampa dei biglietti. Che invece le banche centrali mantengono in piena attività.
Al cuore della creazione di Nakamoto vi era la cosiddetta ‘blockchain’, un registro sempre più lungo di tutte le transazioni (acquisto, vendita e così via) che avvenivano nel sistema. Ogni dieci minuti circa, l’ultima serie di registrazioni delle transazioni veniva raggruppata in un ‘blocco’, che veniva poi ‘incatenato’ al blocco che lo precedeva utilizzando calcoli matematici intelligenti che rendevano impossibile per chiunque tornare indietro e manomettere il contenuto. Questo registro, che nell’ambito finanziario tradizionale sarebbe stato gestito da un’istituzione come un governo o una banca, in Bitcoin era mantenuto da una serie di computer volontari, ognuno dei quali eseguiva il software Bitcoin, comunicava con gli altri computer della rete e archiviava registrazioni più o meno identiche, aggiornando costantemente le copie del registro. Il prezzo di accesso a questa rete, per un computer, consisteva nel cercare di risolvere un rompicapo matematico generato ogni dieci minuti dal sistema. Proprio come i siti web distinguono gli esseri umani dai bot chiedendo agli utenti quanti ponti ci sono in una griglia di foto di paesaggi, questo requisito, chiamato “proof of work” (letteralmente “prova del lavoro”) scoraggiava i cattivi soggetti che avrebbero potuto voler prendere il controllo del sistema. Perché qualcuno avrebbe dovuto sprecare la capacità di elaborazione del suo computer in questa strana attività? Nakamoto progettò abilmente il sistema in modo che il primo computer a risolvere ogni enigma ricevesse una ricompensa in Bitcoin. (…) Anche se lo scopo principale della corsa alla risoluzione del rompicapo era quello di garantire l’integrità del sistema, tale operazione finì per essere chiamata ‘mining’ (letteralmente ‘estrazione’) proprio per la ricompensa in bitcoin offerta. L’enorme quantità di energia impiegata da centinaia di migliaia di computer che lavorano costantemente per risolvere questi rompicapo è anche ciò che ha conferito a Bitcoin una cattiva reputazione fra gli ambientalisti.
Anche chi è più scettico su Bitcoin deve riconoscere al suo fondatore almeno tre cose: che è riuscito in un’impresa impossibile, cioè realizzare un oggetto che è assieme virtuale e scarso; che ha costruito un sistema di pagamenti peer-to-peer che non ha bisogno di intermediari finanziari; che la governance di Bitcoin nasce e rimane totalmente decentralizzata. A differenza delle criptovalute successive, non c’è un istituto di emissione, l’equivalente della banca centrale per intenderci. Il valore di un Bitcoin non dipende dal modo in cui si comporta, appunto, l’emittente ma dal rapporto fra la quantità disponibile e la domanda.
Se dovessimo immaginare un’ipotetica classifica degli articoli sulla base non delle loro citazioni ma dei loro effetti, quello di Nakamoto è senz’altro nella top five dei paper più influenti di tutti i tempi.
Eppure, diciassette anni dopo e anche adesso che un Bitcoin veleggia sui 90 mila dollari, non abbiamo idea di chi sia (o di chi fosse) Nakamoto. Qualcuno sostiene che si trattasse di un nome preso a prestito da Elon Musk, c’è chi immagina che dietro lo pseudonimo si celasse l'ultraottantenne matematico ed economista John Nash. Queste sono le ipotesi più suggestive, non le più probabili. Che vengono passate in rassegna da Benjamin Wallace in questo Il misterioso signor Nakamoto. Sulle tracce del genio segreto di Bitcoin, prontamente tradotto in italiano da Apogeo. Si legge come un romanzo.
Wallace si trova a scrivere di Bitcoin per la prima volta nel 2011, quando il suo editor di Wired, Jason Tanz, gli sottopone il tema. Non ne sa nulla, rimane stupito dal fatto che “i sostenitori più fedeli di Bitcoin erano un vivido mélange cyberpunk di hacker, persone che sostenevano il Gold Standard, anarchici e fanatici di Ayn Rand”. Il fatto che Satoshi Nakamoto avesse abbandonato la scena fu proprio quello che lo rese preda “dell’enigma”. “Nella storia moderna della scienza non vi sono precedenti di persone che hanno ideato una tecnologia rivoluzionaria e l’hanno introdotta nel mondo senza prendersene il merito”,
Di qui comincia il viaggio di Wallace, che meritoriamente “spiega” Bitcoin al colto e all’inclita ma soprattutto mette assieme una galleria di ritratti, perlopiù di personaggi sconosciuti al grande pubblico. Si tratta degli alter ego possibili di Nakamoto, ipotesi suggerite al detective nel corso degli anni da una vasta platea di nerd e “smanettoni” che si tengono in contatto per condividere gli indizi, gente per cui la domanda chi fosse davvero Nakamoto non è una questione oziosa o distante, ma il tentativo di individuare un membro particolarmente geniale della loro comunità. E’ il gusto di provare a risolvere un puzzle intellettuale. Nello stesso tempo, tutti o quasi concordano sul fatto che la sua privacy debba rimanere inviolata. Ne emerge una foto di gruppo straordinaria.
Sono storie che prendono avvio agli albori di Internet, quando lo zoccolo duro di chi ci vive tanto o poco un po’ di software l’ha scritto o ha provato a scriverlo, il cyberspazio appare ancora un’enclave libera dalle interferenze dei governi, John Perry Barlow (paroliere dei Grateful Dead) scrive una bella “Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio”. Leviatani, state alla larga dalla rete, dove stiamo creando una nuova “civiltà della mente”, un mondo in cui “chiunque, ovunque, possa esprimere le proprie convinzioni, per quanto singolari, senza timore di essere costretto al silenzio o al conformismo”. Il diritto degli Stati è basato “sulla materia”, qui la materia non c’è. “Le nostre identità non hanno corpi, quindi, a differenza di voi, non possiamo ottenere l'ordine attraverso la coercizione fisica”. In molti impazziscono dietro a qualcosa che per alcuni è un cubo di Rubik, per altri una necessità politica: la crittografia, che dovrebbe essere un modo per proteggere la libertà ritrovata nel mondo dei bit dall’interferenza del mondo degli atomi. Sono tutti, in parte, segnati da un senso di claustrofobia, che li porta a trovare improprie interferenze governative dappertutto. Ma non erano soltanto paranoie: come sempre quando incontra una nuova tecnologia a cui non ha ancora preso le misure, la tentazione dello Stato è di metterle la museruola.
Phil Zimmermann, un ex attivista antinucleare, aveva rilasciato PGP, abbreviazione di ‘Pretty Good Privacy’, un freeware che metteva la crittografia a chiave pubblica a disposizione di chiunque: bastava caricarne una copia sul proprio computer per crittografare le e-mail prima di inviarle. Il governo degli Stati Uniti, che considerava la crittografia come un'arma della stessa classe dei missili Tomahawk, stava intentando una causa legale contro di lui.
Le accuse a Zimmermann verranno ritirate nel giro di tre anni ma intanto sono servite a rinsaldare una comunità. Gli attivisti cypherpunk vantano forti competenze informatiche, hanno divorato romanzi di fantascienza ma condividono pure una visione fortemente scettica della politica e hanno studiato economia con gli autori della scuola austriaca. Sono dei marginali di genio.
I cypherpunk attraevano per la maggior parte gli uomini, più che altro gli eclettici. Un membro sosteneva di essere un principe del Liechtenstein; un altro si presentava alle riunioni vestito completamente di pelle. Il cypherpunk John Draper era meglio conosciuto come Captain Crunch, perché negli anni Settanta aveva scoperto come effettuare telefonate gratuite a lunga distanza: i fischetti omaggio nelle scatole di cereali Cap’n Crunch emettevano la giusta frequenza, ossia 2.600 hertz, necessaria per lo spoofing del sistema telefonico di AT&T (per questa attività Draper scontò una condanna in un carcere federale). Il gruppo comprendeva anche l’inventore di BitTorrent, Bram Cohen, il paroliere dei Grateful Dead e cofondatore della Electronic Frontier Foundation John Perry Barlow, il creatore di Signal, Moxie Marlinspike, e Julian Assange.
Oltre a Tim May, ex Intel, autore di un articolo col quale, nel 1992, ipotizzava che l’unico vero spazio per un esperimento libertario fosse Internet: la crittografia e dunque la tutela del mondo dei bit dalla protervia dei governi avrebbe consentito di farne una “cornice per utopie”, uno spazio politico privo di cabina di regia nel quale nazioni virtuali e comunità politiche le più diverse avrebbero potuto moltiplicarsi. Un grande laboratorio nel quale mettere a punto una concorrenza allo Stato moderno.
In questo contesto, trova fortuna l’idea “austriaca” della necessaria separazione fra denaro e Stato: liberare la moneta dalla politica, per evitare che quest’ultima seguiti ad asservirla ai propri scopi. Sono concetti che trovano pure una declinazione più mainstream: che cos’è l’euro, se non il tentativo di affrancare la valuta dai governi dei Paesi che la usano? In che direzione vanno le elucubrazioni sul tema della “costituzione monetaria”? Perché a un certo punto si comincia a insistere sull’indipendenza delle banche centrali? C’è però chi pensa che per “denazionalizzare la moneta” sia possibile fare leva sulle tecnologie. I tentativi sono diversi, la stessa PayPal nasce con quell’obiettivo prima di convertirsi in un sistema di pagamenti digitale, a un certo punto un brillante informatico ungherese, Nick Szabo, che molti credono si metta poi la maschera di Satoshi Nakamoto, ragiona sul BitGold.
L’indagine di Wallace non arriva a una conclusione, molti dei sospettati si assomigliano (e non potrebbe essere altrimenti), gli indizi che mette in fila (per esempio: Nakamoto è ritenuto una mente geniale ma non uno scrittore di software particolarmente up to date) sono interessanti ma nessuno risolutivo. Il suo libro però fa qualcosa di più rilevante che scoprire chi era davvero Satoshi Nakamoto. Ci ricorda dell’esistenza di un nucleo piccolo ma agguerrito di individui che, come altre minoranze di spirito ribelle, ha cercato di cambiare il mondo, nel loro caso in una direzione che andasse a ridurre drasticamente il peso della coercizione nella vita degli uomini. Come capita a chi mette nel mirino un bersaglio troppo grosso, molte delle loro battaglie sono andate perse, anche se hanno rivelato alcune individualità eroiche (basti pensare a Julian Assange o Edward Snowden). Col senno di poi, probabilmente i loro lavori, per quanto non abbiano nessuno dei crismi dell’accademia, sono fra le cose più interessanti e potenti scritte negli anni Novanta. Che ne rimane, in un mondo dove se “una generazione che non ha mai sentito parlare dei cypherpunk” è pure “cresciuta assorbendo i loro valori - assistendo alle rivelazioni di Julian Assange ed Edward Snowden, sentendosi disillusa dal capitalismo della sorveglianza” eppure vede “Bitcoin principalmente come un investimento speculativo invece che come una tecnologia utile”? Ne rimane Bitcoin e, nel triste mondo della politica, la retorica e le aspirazioni del Presidente Milei in Argentina, nelle cui dichiarazioni echeggia sempre la promessa di una economia che riesce a liberarsi del giogo della politica.
Non è poca cosa. Il fatto che l’istituzionalizzazione di Bitcoin non ne abbia intaccato la natura decentrata è una testimonianza del genio di Nakamoto (chiunque fosse) ma anche della bontà della trama di idee che ci sta dietro. E lo stesso possiamo dire delle preoccupazioni delle banche centrali, che non cessano di temere questo competitor anche ora che l’hanno in portafoglio prestigiose istituzioni finanziarie e non solo alcuni outsider assoluti. Non c’è flebile speranza libertaria che non incontri una contraerea spietata: pensate a che ne è stato della nostra privacy finanziaria e alle central bank digital currency. Per ora i giganti non vacillano ma finché a Davide non viene strappata la fionda, forse, c’è speranza.
Benjamin Wallace, Il misterioso signor Nakamoto. Sulle tracce del genio segreto di Bitcoin, Milano, Apogeo, 2025, pp. 336.
Una prima versione di questa recensione è apparsa anche su albertomingardi.substack.com